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IL SINDACATO CAMBIA PELLE

C’è chi ha cominciato facendo il giardiniere e oggi è segretario nazionale della Fillea, la categoria degli edili della Cgil.
C’è la giovane militante di Solidarnosc che siede al vertice regionale della Cisl. Oppure chi è arrivato su un gommone e adesso è il responsabile dei tessili Uil di Prato. C’è la clandestina proveniente dal Perù che di notte faceva la badante per pagarsi gli studi, si è laureata in giurisprudenza alla Sapienza di Roma e ora è componente della segreteria confederale della Cisl.
Sono tutti immigrati, vivono in Italia da diversi anni, parlano con cadenza milanese, romagnola, romanesca. Sono sindacalisti a tutti gli effetti. In posizioni e ruoli diversi, dal semplice delegato di base fino alle alte sfere gerarchiche, difendono i diritti di tutti i lavoratori, compresi gli italiani.
Gli stranieri rappresentano ormai il 10 per cento della forza lavoro in Italia. Gli iscritti ai sindacati sono più di 1 milione: il 5 per cento del totale degli aderenti alle organizzazioni dei lavoratori, il 12 se si escludono i pensionati.
Cgil, Cisl e Uil, dopo anni di crisi delle tessere, hanno trovato così l’elisir per una nuova lunga vita e sono pronti a litigare per appuntarsi al petto la medaglia di sindacato più rappresentativo degli extracomunitari. La Cisl assicura di essere la prima con 332.561 iscritti. La Cgil ribatte che i suoi 300 mila sono «puliti» perché non vengono inclusi gli aderenti ad associazioni più o meno affiliate. A seguire la Uil con 190 mila e l’Ugl con 103 mila stranieri tesserati.
Più la presenza di immigrati si fa massiccia, più aumentano quanti assumono ruoli e incarichi attivi, a tutti i livelli, in tutte le categorie professionali e salariali, e in tutte le regioni del Paese. Ne abbiamo avuto prova in occasione di un recente fatto di cronaca, quando in Piemonte un senegalese che chiedeva lo stipendio arretrato è stato ucciso a coltellate dal suo datore di lavoro: il fratello è il segretario dei metalmeccanici della Cgil di Biella.
La metamorfosi del sindacato italiano è in corso. Il blocco sociale che sognava la ribellione delle masse e l’occupazione delle fabbriche si sta trasformando in una società multiculturale che offre servizi attraverso i patronati, i Caaf e gli uffici per immigrati: dichiarazione dei redditi, previdenza integrativa e così via. Ma c’è un «servizio» più importante che non va per nulla sottovalutato. In una fase delicata nei rapporti tra italiani ed extracomunitari, le associazioni di categoria diventano la cerniera, il laboratorio dell’integrazione.
Morad el-Omari, marocchino di 34 anni, segretario provinciale della Filca-Cisl di Teramo e dirigente della comunità islamica abruzzese, ne rappresenta le perfetta sintesi.
«Mi sento come un ponte tra due mondi, quello che imparo nel sindacato lo trasmetto agli altri musulmani. Parlo del valore della trasparenza, della democrazia nelle decisioni, del sistema dei diritti e dei doveri, perché se pretendi qualcosa da un paese devi anche avere degli obblighi» dice Morad.
«Il valore aggiunto che porto nell’organizzazione è una visione del nostro ruolo che non si limita alla vita lavorativa ma riguarda l’intero ruolo sociale. Il sindacato italiano è molto avanti in termini di servizi offerti, ma deve pensare meno alla piazza, che non porta a nulla, e sedersi di più al tavolo per ragionare e contrattare».
Morad è arrivato con un permesso turistico nel 2000 ed è rimasto da irregolare fino alla sanatoria di due anni dopo. Aveva in tasca una laurea in scienze economiche, ha lavorato prima in una fabbrica («In condizioni terribili: sembrava di vivere in un lager» dice), poi in un panificio sei notti a settimana dalle 10 di sera alle 7 del mattino senza pausa.
A un certo punto ha letto un annuncio su un concorso letterario organizzato dall’Anolf di Teramo, l’associazione degli immigrati legata alla Cisl. La traccia del tema era il dialogo interculturale e interreligioso. Ha partecipato con uno scritto dal titolo Cara amica penna sto cercando il sole. Ha vinto. «La penna ascolta il cuore, l’inchiostro è la lacrima che trasforma i sentimenti in parole. Il sole era il mio paese, il Marocco. Ma alla fine mi sono reso conto che l’avevo trovato anche qui, nel sorriso dell’anziano vicino di casa che mi saluta ogni mattina quando esco presto per andare al lavoro. Un sorriso profumato come i fiori del suo giardino».
Sempre dal Marocco è arrivato nel 1987 Moulay el-Akkioui, che oggi è l’immigrato più in alto nella scala gerarchica sindacale: segretario nazionale della Fillea, la categoria edili della Cgil. Anche Moulay aveva con sé una laurea, in biologia, e alla Spezia ha iniziato facendo il giardiniere. Nella città ligure ha fondato il coordinamento immigrati della Cgil e da lì ha scalato tutti i gradini.Quella del sindacato per lui è stata una grande sfida. «All’inizio mi metteva paura. Mi sono imposto alcune regole fondamentali come tenermi sempre aggiornato sulle materie trattate e l’assumere un comportamento onesto e non demagogico nei confronti degli imprenditori».
Il padre di Moulay era un sindacalista. «Mi ha insegnato che i problemi delle persone non vanno mai banalizzati. Ogni cosa va presa sul serio, perché ciò che a te può sembrare una sciocchezza per gli altri potrebbe avere valore vitale».
È un bel paradosso quello che incarnano Moulay e tanti suoi colleghi. Come Felix Andres Diaz Acevedo, della Repubblica Dominicana, delegato della Fai-Cisl di Verona, che passa le giornate a spiegare agli italiani le voci della busta paga o il Tfr. Come Nataliya Tsebryck (nella foto), ucraina con due lauree in storia dell’arte e pedagogia, che quando smette i panni di dirigente nazionale dell’Ugl si dedica al volontariato. O ancora come Dovì Aloumon, togolese funzionario della Fillea di Pescara, che gira tutto il giorno per cantieri cercando di risolvere piccoli e grandi problemi.
E che dire di Aziz Ibnoerrida? Il marocchino coordinatore dello sportello immigrati della Uil di Marciano di Romagna (Rimini) ha avuto un ruolo fondamentale nello snellimento delle procedure tra prefettura, questura, comuni e immigrati che hanno abbassato a 45 giorni il tempo medio di attesa per il rinnovo del permesso di soggiorno.
Tutti loro si battono non solo per portare avanti le rivendicazioni degli immigrati ma anche per difendere i diritti dei lavoratori italiani. Peccato non abbiano la cittadinanza e non possano votare. Un particolare non da poco nel processo di assimilazione della cultura del paese ospitante. «Il diritto al voto è fondamentale» dice Moulay. «L’immigrato non potrà mai essere integrato fino a quando non potrà partecipare attivamente alla vita politica del paese».
Forse è anche per questo che Shawky Geber, egiziano di 61 anni, dirigente della Fillea di Milano, dopo 36 anni passati in Italia alla fine dice di non sentirsi più né italiano né egiziano.
Nella sua lunga attività sindacale ha sempre tenuto fede a un principio che ritiene fondamentale: «Non sono il sindacalista degli immigrati ma di tutti i lavoratori. Sono testardo. Dove c’è un diritto io mi batto per ottenerlo, e non guardo in faccia nessuno».
È anche per questo che da delegato sindacale di un’azienda con un centinaio di dipendenti, la maggior parte dei quali italiani, è stato rieletto per 14 anni di fila con oltre il 90 per cento dei voti. «Conosco il significato della parola lavoro da quando avevo 9 anni. Parlo il linguaggio dell’operaio e non mi perdo in discorsi sui massimi sistemi».
Della controparte, ovvero gli imprenditori, dice che «i più diffidenti quando si trovano di fronte un sindacalista straniero sono i bergamaschi e i bresciani. Ma quando ti conoscono ti danno anche l’anima».
La funzione sociale delle organizzazioni dei lavoratori viene sottolineata da quasi tutti quelli che rivestono cariche sindacali. Qamil Zejnati, albanese diplomato all’Accademia delle belle arti in flauto traverso, è arrivato su un gommone a Brindisi nel 1991 e oggi è il rappresentante Uil dei tessili di Prato. «Il sindacato è una specie di casa dei migranti, l’unico posto dove lo straniero avverte in qualche modo un sentimento di partecipazione alla vita sociale del paese».
Ewa Blasick, polacca di 49 anni, laureata in filologia all’Università di Cracovia, da giovane ha militato nel sindacato indipendente Solidarnosc, poi è finita in una specie di lista nera ed è partita alla volta dell’Italia. Pensava di rimanere un anno. Ha fatto la baby sitter, la cameriera e altri lavoretti. Poi ha fondato un’associazione di donne straniere e oggi è il segretario della Cisl del Lazio con varie deleghe, tra le quali quella sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Il suo impegno è far uscire il sindacato da un ruolo «di semplice firmatario dei contratti, per fargli acquisire sempre più una funzione di equilibrio sociale».
Un ruolo più che attivo in questa prospettiva lo ha Liliana Ocmin, peruviana di 37 anni, segretario confederale della Cisl. È arrivata da clandestina attraverso la Svizzera nel 1992, pagando 400 dollari a Lugano per il trasferimento a Milano. Ma quando ha trovato il primo lavoro è tornata in Perù, ha aspettato la chiamata nominativa ed è rientrata dalla porta principale. Poi ha fatto la badante di notte per riuscire a studiare di giorno e prendere l’agognata laurea in giurisprudenza all’Università La Sapienza di Roma. Nell’ultimo consiglio generale della Cisl si è battuta e ha fatto approvare un ordine del giorno che mira al riconoscimento della cittadinanza in favore di 700 mila bambini nati in Italia. «La politica tende a spostare i problemi in avanti. Parla spesso alla pancia degli italiani. Da questo punto di vista, sia la destra sia la sinistra tendono a strumentalizzare l’immigrato».
Lo stesso immigrato che per qualcuno è diventato merce preziosa.

( articolo tratto da http://blog.panorama.it/italia/ a cura del Sei Ugl Sicilia)

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